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giovedì 28 agosto 2014

L'antico edificio (templare?) di Santa Croce

Al centro del villaggio di Santa Croce, adiacente all’abside della chiesa parrocchiale, si trova un singolare edificio a pianta quadrata, costruito in massicci conci di pietra ben squadrati.


Si tratta dell'antica scuola parrocchiale, e sembra risalire alla fine del XV sec.; o perlomeno così indica la data MCCCC89 incisa su un'architrave:

L'architrave.
Il significato della prima riga non è mai stato decifrato.
Nella seconda riga: "Hoc opus magister Georgyius fecit"
Infine, la terza riga, probabilmente incisa in epoca successiva alle prime due, con la data "MCCCC89"
All'altra estremità dell'architrave, è inciso un rosone a 16 raggi
Altre incisioni sono distribuite su vari punti della facciata:







Sull'altra facciata, un'edicola sacra circondata da un cordoncino decorativo e dal bassorilievo di un volto:



Prima di addentrarci nella storia di questa costruzione, soffermiamoci per un attimo di doverosa deplorazione: per come è stato nel corso del tempo rovinato da lavori di impiantistica effettuati senza il minimo rispetto del suo pregio e della sua storia. E ciò è avvenuto non nel corso di secoli, ma degli ultimi decenni, dopo che l'edificio è sopravvissuto per quattrocento anni, sostanzialmente integro dal punto di vista architettonico.

Questo strano edificio, con i suoi ancor più singolari bassorilievi dal sapore neanche tanto vagamente esoterico, hanno fatto favoleggiare a proposito di una presenza dei Cavalieri Templari a Santa Croce, e precisamente di una "mansiones" o "hospitalia", una sorta di "punto di sosta" per i pellegrini che, in  gran numero ed a distanze regolari, i Cavalieri del Tempio allestirono e curarono lungo le principali vie del pellegrinaggio verso la Terrasanta.
Infatti ai simboli zoomorfi, è associata una conchiglia di S. Giacomo e un bordone, inequivocabili simboli di pellegrinaggio; ma anche l'immagine del cavallo, ancorché rovinata, ci rimanda alla simbologia templare.

L'ipotesi che sia stato costruito dai Templari tuttavia, per quanto suggestiva ed affascinante, non regge. L'ordine dei Cavalieri Templari fu infatti sciolto, su ordine del Re Filippo IV il Bello, il 13 settembre 1307: quindi, ben 182 anni prima della data "MCCCC89" incisa sull'architrave.

Quindi, i Cavalieri Templari non c'entrano?
Non proprio; anzi, escono dalla porta per rientrare dalla finestra.
Studiamo un attimo l'edificio: se osserviamo attentamente la tessitura del muro, riscontriamo delle macroscopiche incongruenze.


Ad esempio, una fila di conci ben squadrati e regolarissimi, si ritrova ad un certo punto disallineata, per adattarsi ad una fila sottostante di conci meno regolari.
Uno dei bassorilievi è visibilmente solo un frammento di un'immagine più grande:



Ed in genere, tutta la tecnica costruttiva dell'edificio (tutto sommato, abbastanza approssimativa) stride con la qualità dei conci, e la cura con cui sono stati squadrati. Ci ritroviamo insomma evidentemente di fronte ad un edificio costruito recuperando conci provenienti dalla demolizione di un altro edificio, più antico. (1)
Ed i bassorilievi, quindi, provenivano da quest'altro edificio, nel quale presumibilmente erano inquadrati con un senso più armonico e plausibile.

Quale poteva essere l'edificio originario?
Ed è qui che tornano in gioco i Cavalieri Templari: infatti a Grignano (proprio sottostante a Santa Croce, e da questa distante poche centinaia di metri) si trovavano la chiesa di Santa Maria e il Convento della Beata Vergine di Grignano; e la presenza dell'Ordine del Tempio a Grignano è quasi certa, avvalorata da atti del processo ma anche da documenti - oggi perduti, ma ancora nell'800 conservati negli archivi del Convento.
Nel 1338 il Convento apparteneva sicuramente all’ordine dei Benedettini, e dopo il 1349 fu fondata la Confraternita di Santa Maria di Grignano, collegata e mantenuta dalla Chiesa dei SS. Martiri di Trieste e da alcune ricche famiglie di Prosecco e Santa Croce.
Sappiamo inoltre che il convento fu oggetto di un'incursione turca nel 1471 e che, in seguito anche ad alcune pestilenze, il convento decadde ed i Benedettini progressivamente scomparvero, fino a che - nel XVI sec. - il convento di Grignano passò ai Minori di San Francesco.
Sappiamo inoltre che il villaggio di Santa Croce tra il 1466 e il 1471, in seguito a donazioni e vendite, passò dalla famiglia Pellegrini alle monache benedettine del monastero di S. Cipriano in Trieste.
Quindi, dopo il 1471 abbiamo a Santa croce una nuova proprietà (le monache benedettine di S. Cipriano) e, a poche centinaia di metri di distanza, il convento benedettino di Grignano, in decadenza e probabilmente danneggiato, o forse anche parzialmente distrutto, in seguito alle incursioni turchesche.
Nulla di più facile che le macerie di qualche costruzione di Grignano, danneggiata o comunque inutilizzata, siano state reimpiegate a Santa Croce per la costruzione di un nuovo edificio: si trattava, in definitiva, di proprietà entrambe del medesimo ordine.
Gli ottimi materiali quindi della antica scuola di Santa Croce proverrebbero da un più antico edificio di Grignano, costruito certamente con maggior sapienza: probabilmente un edificio di origine templare. Le nuove maestranze però non avevano l'abilità di quelle che, qualche secolo prima, avevano costruito l'edificio originale, squadrandone con sapienza i massicci conci: si limitarono a riutilizzare i materiali alla meno peggio, senza cimentarsi in lavori di squadratura ma adattando grossolanamente i materiali a disposizione, ed utilizzando pietre più piccole per allinearle, incastrarle e riempire le inevitabili cavità (una tecnica propria dell'architettura tradizionale carsica)

Forse l'edificio originale era proprio un "hospitalia", ovvero a ricovero per i pellegrini e viandanti; e forse anche l'edificio di Santa Croce, originariamente, era anch'esso destinato a "hospitalia": il flusso di pellegrini verso la Terrasanta continuò infatti a lungo, ben dopo la fine dell'Ordine Templare, e nella loro funzione di assistenza ai pellegrini i cavalieri del Tempio furono spesso sostituiti dai frati dell'ordine Benedettino.
Quindi, in definitiva, ci si ritroverebbe di fronte al trasferimento dell'Hospitalia da Grignano a Santa Croce, realizzato demolendo il vecchio edificio ed utilizzandone i materiali per la costruzione del nuovo.

Questo spiegherebbe anche il reimpiego di decorazioni legate simbolicamente al pellegrinaggio, oltre ad altre che, recuperate dall'edificio originale, probabilmente non furono neppure interpretate correttamente, e inserite a mero scopo decorativo nella nuova costruzione. Tuttavia queste decorazioni oggi, avulse dal loro contesto originale, e probabilmente monche e incomplete, hanno sicuramente perso il loro significato esoterico, rendendone quindi l'interpretazione molto difficile, se non del tutto impossibile.

Di ipotesi fino a qui ne abbiamo fatte tante, ma tutte verosimili e - almeno in parte - suffragate da documenti storici.
Nell'interpretazione dei simboli dobbiamo abbandonare il campo delle ipotesi, per affidarci a quello delle pure illazioni; e si tratta di discorsi che ci porterebbero lontano, ed a percorrere sentieri impervi.
Si tratta però di suggestioni affascinanti, alle quali è difficile resistere: e, peraltro, l'interpretazione dei simboli richiede che si lasci vibrare corde dimenticate del nostro animo, abbandonando i canoni della stretta razionalità per affidarsi ad un più generico ed universale "sentire".

Lasciatemi quindi qui proporre un semplice accostamento, tra uno dei simboli della Scuola di Santa Croce (forse non a caso monco e danneggiato) ed il più classico dei simboli templari:




Potrebbe questo frammento di bassorilievo essere una parte del famoso sigillo dei due cavalieri che dividono il medesimo cavallo (a simboleggiare sia l'ideale di povertà dell'Ordine, sia la dualità del ruolo di monaci e guerrieri dei Templari).
Ipotesi affascinante, suggestiva, ma sostanzialmente impossibile da provare...

Per chi si volesse cimentare in ricerche o anche semplici speculazioni, resta anche il mistero del significato dell'incisione della prima riga dell'architrave, mai interpretato:



domenica 22 settembre 2013

il Palazzo d'Attila

L'attuale Villaggio del Pescatore sorge su quella che in realtà era una baia, interrata e bonificata negli anni '50. Però fino al secolo scorso, dove oggi ci sono le case del Villaggio del Pescatore c'era una palude e, qualche secolo prima, il mare.
Tale baia era detta "del catino" o "Val Catin", ed era chiusa da una scogliera ancora oggi visibile dietro alle costruzioni del primo nucleo abitato del Villaggio.
Sul ciglio di tale scogliera si trovano dei resti murari, fatti di pietre squadrate legate con malta, di non facile interpretazione (soprattutto oggi, in quanto per la maggior parte celate dalla folta vegetazione). Alcune foto risalenti all'epoca precedente alla prima guerra mondiale, quando la vegetazione era quasi assente, rendono l'idea dell'imponenza e complessità delle opere murarie.
Si intravedono anche i resti di un pavimento in cocciopesto, realizzato con rottami di pietra carsica e laterizi, legati con malta, con una cavità sottostante ormai occlusa (forse una cisterna?). Resti di laterizi si notano anche nella zona circostante.

il Palazzo d'Attila nei primi anni del XX secolo


Popolarmente queste rovine sono dette "Palazzo d'Attila", in quanto secondo la leggenda il "palazzo" venne dapprima utilizzato e poi distrutto da Attila nel 452, nel corso della campagna militare contro Aquileia.
E' tuttavia possibile che si tratti del mitico "Castellum Pucinum" citato da Plinio, e che si tratti del medesimo "Potium" o "Pucium" nel quale nel 737 d.C. venne rinchiuso il patriarca di Aquileia Callisto: la posizione dominante, che permetteva un efficace controllo sia della baia che della strada di accesso, ben si prestava ad un'opera militare di controllo.
I resti, come si presentano oggi
Secondo P. Kandler, nella zona sottostante si trovavano degli anelli in ferro infissi nella roccia per l'attracco delle navi.

Riporto la descrizione dettagliata da http://siticar.units.it/ca/adriatico/sito.jsp?id=4_A :

Il sito si estende sulla cima del rilievo carsico dominante sulla baia detta “del Boccatino” o “Val Catin”, interrata negli anni ’50 per permettere l’estendersi del Villaggio del Pescatore. I resti attualmente visibili, attribuiti fino ad anni recenti ad epoca medievale, sono situati sulla cima del rilievo retrostante all’area corrispondente al sito di Casa Pahor, UT 159. Come già intuito dal Puschi, il corpo principale si dispone su tre livelli dei quali i primi due costituiscono le sostruzioni al complesso abitativo vero e proprio, situato più in alto. Esse, realizzate interamente in opera cementizia con paramenti a blocchi regolari, si articolano in due strutture parallele lunghe oltre 40 metri che definiscono l'estensione verso mare dell'intero complesso, superando un dislivello totale di almeno 10 metri. La struttura più esterna, costruita sulla roccia a strapiombo sul mare, opportunamente scalpellata, presenta un fronte articolato da contrafforti larghi c.ca 2 metri per una profondità di 3,50. La pulizia ne ha individuato tre che si legano saldamente alla struttura retrostante lasciando una luce di 5 metri scarsi. Il contrafforte più occidentale è anche pilastro angolare e limita l'estensione del complesso su questo lato: il muro che da questo si dipartiva verso nord-ovest, seguendo la forma del "Boccatino vecchio" è in parte crollato e non rilevabile. Sulla base di alcune particolarità rilevate in planimetria, è possibile che su questo lato si aprisse una ingresso secondario (quello principale doveva trovarsi verso nord-est), forse collegato attraverso infrastrutture in legno ad un sentiero (UT ) che permetteva di raggiungere il mare e fonti d'acqua potabile delle quali si conserva memoria orale. La seconda linea di sostruzione, perfettamente parallela alla prima, è conservata in questo punto con un alzato di due metri c.ca, nel quale si notano alcune buche porta palo e tre riseghe lievemente aggettanti. Da questa struttura, dopo c.ca sette metri verso sud-est, se ne diparte un'altra perpendicolare che si aggancia alla prima sostruzione e termina con una pietra angolare, vevendo a definire appunto, un possibile ambiente collegabile ad un ingresso aperto sul lato nord-occidentale del complesso. Il quartiere abitativo occupa il terzo livello. Ad esso sono riferibili numerose strutture delimitanti alcuni ambienti dei quali uno presenta una superficie a cocciopesto-signino gettato su volta. Il sottostante ambiente, non indagato perché completamente riempito, può forse nascondere una cisterna o vani relativi ad un cryptoportico, spesso ricavato quest'ultimo all'interno delle sostruzioni.


sabato 27 ottobre 2012

La leggenda del castelliere di Nivize

I resti del castelliere di Nivize sorgono su un colle isolato e suggestivo, oggi nascosto da una fitta boscaglia di roverelle, nel complesso delle alture del Monte Lanaro.
Nivize deriva da Njivize, "piccolo campo", ma il nome che la località aveva in passato era molto più evocativo (e significativo): Ajdovski Grad, "Castello dei pagani".

Secondo la leggenda, su questo colle si ergeva un tempo un maniero, covo di briganti che depredavano i viandanti lungo la strada.
I Conti di Duino reagirono alle rapine, cingendo d'assedio il castello dei briganti, che dopo un lungo assedio fu infine espugnato.
Tutti i difensori furono giustiziati, ed il castello raso al suolo, alla ricerca anche del tesoro accumulato dai briganti nelle loro ruberie. Di tale tesoro non si trovò traccia, e si ipotizzò che fosse stato nascosto in un profondo pozzo naturale, che si apriva all'interno del castello.
Ma nessuno ebbe il coraggio di calarsi in tale pozzo, sicura dimora del diavolo, e gli assedianti rimandarono quindi la ricerca del tesoro.
Però da allora il posto fu infestato dagli spiriti dei briganti, che anche dopo la loro morte difendevano il proprio tesoro, che quindi non fu mai più ritrovato...
Nel XIX secolo il parroco di Aurisina decise di por fine alla maledizione e, nel corso di più e più notti trascorse sul colle, praticò un vero e proprio esorcismo che, infine, ebbe ragione dei fantasmi che lo infestavano, che furono quindi scacciati.
A questo punto cominciarono sul colle le incursioni di anonimi cercatesori, che crivellarono il colle di scavi senza però mai trovare l'agognato tesoro dei briganti ma, al più, qualche coccio di terraglia...

Quel poco che sappiamo della realtà storica della zona è poco meno suggestivo della leggenda.
Quelli interpretati come le rovine del castello dei briganti sono in realtà i resti di un castelliere dell'età del bronzo, al cui interno di apre effettivamente una grotta ("Grotta sul castelliere di Nivize" - 4616VG) che cela più di un interrogativo.

Visualizza Castellieri del Carso in una mappa di dimensioni maggiori

L'ingresso è in parte ostruito da un macigno - il che la accumuna ad altre grotte grotte in prossimità o dentro la cinta di castellieri, quale ad es. la Grotta delle Mosche.


Il primo a scriverne fu Alberto Puschi, nel 1892:
in una piccola grotta di difficile accesso, che giace entro il recinto del castelliere di Nivize presso Repentabor, si rinvenne uno scheletro umano con appresso due bronzi mezzani di Alessandro Severo (222-235) con MARS ULTOR e di Giordano Pio (238-244) con VICTORIA AETERNA
Nel 1965 furono effettuati dalla Società Alpina delle Giulie degli scavi archeologici, nel corso dei quali furono compiuti dei lavori di disostruzione della grotta (come e perché era stata ostruita dopo l'esplorazione del Puschi?)
Durante tali lavori vennero rinvenuti in una nicchia una calotta cranica, un corno di cervo e vari frammenti di un vaso; mentre nel cono detritico alla base del pozzo di accesso furono rinvenuti i resti scheletrici di una ventina di individui, evidentemente gettati dall'alto. In entrambi i casi, i resti risalivano all'età del bronzo e del ferro, ma non venne effettuata nessuna analisi specifica sugli stessi per rispondere alle tante domande che un rinvenimento così singolare poneva: ad esempio, i corpi furono gettati nel pozzo tutti assieme, oppure in un arco di tempo più ampio, come nell'osservanza di un particolare rito di sepoltura.
E poi: quale fu la causa della morte di quegli individui? Si trattò di una sepoltura, di un sacrificio o dell'esecuzione di nemici?
Gli individui erano imparentati fra di loro?

Nel 1984 altri scavi archeologici furono compiuti dalla Associazione XXX Ottobre, che rinvenne questa volta soprattutto resti databili all'epoca romana: una moneta di Licinius Valerianus (253-260 d.C.), un  ago di bronzo, ed un misterioso manufatto: una pallina di terracotta con la superficie costellata di forellini, alla quale non si è riusciti ad assegnare alcuna funzione pratica e che quindi si ipotizza legata a qualche funzione magica.

Oggigiorno la zona è una delle più solitarie ed amene del Carso, degna meta di una bella passeggiata, durante la quale sarà ben difficile resistere alla suggestione creata da un tale intessersi di leggenda ed enigmi storici...

domenica 24 ottobre 2010

Dagli appunti di Alberto Puschi: Trieste Obcina - antichità e strade

Eccovi la trascrizione integrale di un'altro foglio di appunti di Alberto Puschi.
La prima pagina è priva di data, mentre quella successiva di "aggiunte e correzioni" porta la data del 31 maggio 1901.
Meritano di esser letti con attenzione, perché contengono molti spunti di ricerca degni di essere approfonditi...
Potrebbe trattarsi dell'ultima testimonianza di un piccolo castello medievale (o, più probabilmente, di un tabor), per il resto cancellato dalla memoria.
Seguono quindi alcune mie note, conseguenti anche ad una breve ricognizione sul campo.

Trieste Obcina - antichità e strade
Presso il cimitero del villaggio vedonsi dei solchi impressi nel sasso di una strada che dirigevasi, a quanto sembra, alla volta di Bane e doveva esser ancora più elevata della vecchia strada, detta Goriziana, sulla china (?) dei monti che prospetta il Carso. I solchi distano m. 1.25 l'uno dall'altro.
A destra della strada Obcina-Repentabor, dopo passata la linea ferroviaria e prima di raggiungere la depressione di Percedol, in prossimità alla strada scorgonsi in un sentiero campestre i solchi di antica strada distanti l'uno dall'altro m. 1.25 nella direzione di Greco a Libeccio, in modo che questa strada o si univa o attraversava l'attuale.
Dall'obelisco verso Maestro il primo monte della costiera è detto Selevec e dividesi in tre sommità, delle quali più alta è quella ove fu costruita la vedetta Ortensia. Recandosi da Obcina all'estremità occidentale di questo monte, ove una sella lo divide dall'altro detto Hrib, si scorgono le fondamenta di una muraglia grossa circa m. 1 che dal monte dirigesi verso il cosiddetto bosco Volpi, e viene a trovarsi a S.SOv. di Repentabor.
La sella tanto sulla china del Selevec, quanto su quella dello Hrib presenta avanzi di muraglie, che da quanto si scorge sono costruite senza cemento, che sono orientate da Scirocco a Maestro, et unite con altre da Greco a Libeccio, tutte di grosse pietre tagliate, le quali racchiudono degli spazi quadrilateri. Questi avanzi di costruzioni si protendono sino al punto ove il monte precipita a scendere ripido verso il mare.
Rimarchevole è una muraglia la quale da questa sella percorre il Selevec sul lato che prospetta il mare, in direzione di Ponente a Levante grossa da m. 1.30 at 1.50, sino alla sommità maggiore della vedetta. Alla quale sono addossati (sic!) altre costruzioni, una delle quali sembra di forma semicircolare e pare sia di una torre, mentre le altre comprendono degli spazi quadrangolari, abbastanza vasti.
Vi trovasi anche qualche pezzo di laterizio romano. Gli edifici I muri scarseggiano (?) nella parte occidentale del monte, preponderantemente (?) da quella parte che guarda a manca (?), mancano invece quasi affatto sulle due sommità maggiori orientali, ove invece troviamo una cinta murale, come di un castellaro alla quale si unisce la muraglia principale, che vista alla superficie sembrerebbe costruita di grosse pietre non tagliate. La china che fronteggia il mare è detta Reber (?). Dalla parte opposta verso il villaggio, alle falde del monte si ravvisano ancora i segni d'un lungo muro, che da questo mi dissero corre più in là dell'Obelisco sino alla contrada di Padrich, detta [illeggibile].
A sinistra del sentiero Stefania, andando a Prosecco, pochi passi sotto havvi un sitto detto Romankova Ronna, prato romano ove furono trovati e in terra si trovano laterizi romani, embrici e rottami di vasi.
Frequenti sono in tutti questi paraggi le tracce di antiche cal[illeggibile - presumibilmente calcinaie], nelle quali certamente si sarà consumata una parte del materiale di queste rovine. Questo prato è inclinato a destra [?] strada di Stefania s'estende per circa cento metri sul pendio del monte, il quale tutto all'intorno è distinto col nome di Reber (costruzioni).
Presso Obcina sarebbe stato rinvenuto un martello di pietra verde, che la guida Antonio Vremez mi disse di aver donato a certo Vichichi impiegato del dipartimento forestale della luogotenenza di Trieste.
Presso Contovello sotto la via Vicentina havvi località con rovine di case, che viene appellata Starasello. La chiesa di Obcina è consacrata a S. Bartolomeo, gli abitanti anticam. recavansi alla solennità di S. Giovanni di Duino.

21 maggio 1901. Aggiunte correzioni:
Circa trenta metri a N. Ov. del punto trigonometrico, havvi uno spazio piano cinto di muraglia grossa più d'un metro (metro 1.20), conosciuta col nome di Šanza [?] (Sehanze [?]), il quale ha la forma di un quadrilatero col lato che prospetta la sommità arrotondato, come l'abside di una chiesa. I lati retti sono lunghi trenta metri, quello che prospetta a marina [?] è semplice, laddove quello volto verso la villa e l'altro opposto al curvo sono doppi, consistenti di due muraglie d'eguale grossezza parallele e distanti l'una dall'altra due metri. La direzione di questi muri è da maestro a scirocco e da greco a libeccio. Sono formati di pietre tagliate, ma da quanto vedesi alla sommità senza cemento.
La grande muraglia sul dorso del Selevec comincia sotto questo fortilizio nella sella che unisce la vetta di scirocco, che è la più alta, colla vetta mediana e si estende oltre le due vette di maestro sino alla sella che congiunge questo monte col Hrib. Il terriccio non è nero, pochi sono i rottami, i quali, per quanto osservai, mi sembravano di genere medievale. Converrà fare altre indagini, gli abitanti dicono che questo fortilizio fu costruito a difesa contro i Turchi. Recandomi alla sella tra il Hrib ed il Selevec osservai chiaramente distinta la linea di una strada che conduceva diretta da oriente a ponente fino ai casolari che colà ancora si scorgono, presso i quali il terriccio è nero. Probabilmente da qui si scendeva al prato romano sul quale nei giorni 30 e 31 di maggio feci praticare degli assaggi su d'una superficie di ben 400 m.q. trovando innumerevoli rottami di anfore, vasi e tegole di laterizio romano fra cui un pezzo di collo colla marca [...], una fusaiuola, qualche pezzo di pietra arenaria tagliata (il terr. è calcare e la roccia s'incontra a 30 cm.-40 cm. di fondezza) ma nessuna traccia di costruzione e nemmeno calcinacci.

Qui terminano gli appunti.

La nota più interessante è quella della fortificazione (probabilmente un tabor) sulla vetta del Selevec (oggi riportato sulla CTR come "Selivec").
La zona è stata letteralmente devastata nell'ultimo secolo da un'isteria di impianti: l'acquedotto, numerose linee elettriche (di alcune, ormai dismesse, si intravedono nel bosco solo i basamenti dei tralicci), ed a completare l'opera recentemente anche un'antenna per telefonia cellulare.
La vetta del Selevec/Selivec in particolare è completamente occupata dagli impianti dell'acquedotto (che sono anche recintati). Probabilmente, il tabor è stato completamente demolito e le pietre riutilizzate per le massicciate che circondano l'impianto.

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Anche delle murature che correrebbero lungo la cresta, descritte dal Puschi, non sono rimaste tracce evidenti. Certamente, alcuni raggruppamenti di pietre nel bosco in ordine un po' meno casuale di quanto ci si potrebbe aspettare lasciano immaginare che qualcosa ci sia stato... soprattutto la zona attorno alla vetta dello Hrib è ricca di ammassi di rocce che appaiono non esser frutto solo di un capriccio geologico... però anche questa zona è stata pesantemente lavorata, ed i rimboschimento rende il terreno molto meno "leggibile" di quanto non fosse all'epoca del Puschi (quella volta la zona doveva essere completamente brulla e spoglia).


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Il fatto che questo fortilizio fosse di "pietre tagliate" fa pensare a qualcosa di più di una semplice "fortificazione spontanea"; anche le dimensioni, abbastanza considerevoli (un quadrato di trenta metri di lato) potrebbero indicare che si trattava di qualcosa più di un tabor.
La posizione, indubbiamente "importante", lascia ragionevolmente supporre che in passato vi sia stato quasi certamente un castelliere, e forse anche un fortilizio romano. Questo potrebbe poi esser stato riadattato in epoca medievale, ed usato come tabor. Questo spiegherebbe anche la presenza, almeno nella parte più bassa delle mura (viste dal Puschi), di "pietre tagliate".
Il muraglione doppio e parallelo, che formava un corridoio largo due metri lungo due lati, probabilmente era un pasaggio forzato per meglio difendere l'accesso.
Non è chiara la funzione del lato semicircolare verso sud-est: forse il piede di una torre?
Allo stato attuale dei luoghi, non credo che sia più possibile alcuna indagine che possa fornirci indicazioni più attendibili.

Alcune note per aiutare chi voglia orientarsi in una ricerca "sul campo":
  • il "prato romano" citato da Puschi è la zona di "Campo Romano", oggi occupata dalle casette costruite dal Governo Militare Alleato. Qualsiasi giacimento archeologico è stato ovviamente definitivamente distrutto.
  • Puschi nei suoi appunti usa indicare le direzioni secondo la rosa dei venti.
    Visto che questa consuetudine è ormai desueta e potrebbe non essere familiare a tutti, riporto le corrispondenze:
    maestro           nord-ovest
    greco              nord-est
    libeccio           sud-ovest
    scirocco          sud-est
  • il "punto trigonometrico" esiste tuttora (forse spostato di alcuni metri rispetto alla posizione originaria all'epoca del Puschi). Si trova all'interno del recinto che delimita il serbatoio dell'acquedotto.
    Il punto trigonometrico originale è ben visibile in questa cartolina d'epoca:
      
  • come si può vedere, la zona è vicinissima alla vedetta Ortensia; sarebbe interessante vedere se, da qualche foto "turistica" scattata da questa vedetta, e dimenticata in qualche album di famiglia, si potesse ricavare qualche informazione su questa fortificazione...
  • Nella foto seguente, vediamo lo stato attuale dei luoghi:
Vediamo il massiccio terrapieno che circonda il serbatoio del'acquedotto, e che è stato con tutta probabilità realizzato con le pietre di risulta dalla demolizione delle strutture descritte dal Puschi.
Il punto trigonometrico è (probabilmente) quel pilastrino, sovrastato da un tubo metallico; poiché risulta ormai nascosto dal massiccio serbatoio dell'acquedotto, il punto trigonometrico è stato anche materializzato con un "fuori centro" (il pilastrino, circondato da una pedana, sovrastante al casotto sulla sinistra).

Un dettaglio del punto trigonometrico originale.

L'angolo nord del serbatoio dell'acquedotto. In questa zona doveva trovarsi il tabor. 

lunedì 27 settembre 2010

Dagli appunti di Alberto Puschi: strada romana S. lorenzo a Corgnale

Eccovi la trascrizione di un'altro foglio di appunti di Alberto Puschi (questa volta, privo di data).

Carso di Trieste
Strada Romana S. Lorenzo a Corgnale
Tracce di questa strada si riconoscono lungo le falde del Monte Concusso e consistono di profondi solchi distanti m. 1.30 e di avanzi di letto scavato (?) a dorso di mulo, con scambi (?) per i carri. Sembra che questa strada si staccasse dalla strada di Fiume presso a poco nel sito ove raggiunge la strada moderna (?) e prima in direzione di n. ovest, quindi di n. est girando (?) alle falde del monte e da ultimo tagliata la strada moderna Basovizza Corgnale, andasse a raggiungere quella parte di questa villa che si fa appresti del M. Clemenoga (?). E' molto più alta della strada attuale, dalla quale presso il confine dell'agro di Trieste dista poco più di mezzo chilometro.
Seguii le strade del Carso tergestino nei mesi di Aprile e Maggio 1900 avendo a guida Bortolo Versich, guardia civica di Gropada.

Anche in questo foglio la calligrafia non aiuta, e le incertezze sono parecchie...
Non mi è stato possibile identificare il citato monte Clemenoga (?), nei pressi di Corgnale, in nessuna cartografia attuale.

domenica 26 settembre 2010

Santa Croce, costiera, scoperte romane - 29 dicembre 1911

Vi propongo la trascrizione di un'altro foglio di appunti (probabilmente inediti) di Alberto Puschi, risalenti al 29 dicembre 1911:

A metà distanza tra la stazione di Grignano e la fermatina di S. Croce, sotto la linea della ferrata, ma più vicino alla riva del mare che non a questa, sul fondo n. cat. vecchio 2397, n. cat. nuovo 2121/1 e 2121/2, n. tav. 1128, detta Lahovez (?), ed anche terra di S. Michele, ed ora proprietà di Cristiano Cossutta abit. al n. 194 di S. Croce, dissodandosi il terreno per l'impianto di un vigneto furono scoperti dal Cossutta stesso gli avanzi di una fabbrica romana, consistenti in alcuni tratti di muri, di un canale intonacato di cemento e coperto di sfaldature d'arenaria, e molti rottami di laterizio, tra cui pezzi di grandi e grossi mattoni, ma diversi per colore e cocci di anfore e d'altri vasi. Trattasi di una villa rustica, che in seguito ai lavori campestri era già per l'addietro quasi interamente demolita in guisa che dei muri rimasti nessuno superava la linea dei fondamenti. La scoperta avvenne durante l'ottobre del 1911.
Questi terreni appartenevano in passato alla chiesa di Sgonico e da essa ebbero nell'uso del popolo il nome di terra di S. Michele. L'Opiglia eseguì due fotografie del sito. Il proprietario narra di maggiori scoperte che vi avrebbero fatto i suoi antenati.

L'Opiglia citato dovrebbe essere Pietro Opiglia, fotografo archivista del Civico Museo di Storia ed Arte.

Interessante il fatto che viene indicata con precisione sia la particella catastale che il numero tavolare del terreno dove venne fatta la scoperta; con una breve gita all'Ufficio Tavolare dovrebbe essere facilmente individuabile il terreno e la relativa cartografia.
In attesa delle indagini all'Ufficio Tavolare, accontentiamoci di indicare approssimativamente (anzi, MOLTO approssimativamente) la zona:


Visualizza Carso segreto in una mappa di dimensioni maggiori

martedì 27 luglio 2010

Gita archeologica a Nabresina – 26 gennaio 1908

Mi sono arrivate le riproduzioni di alcune pagine di appunti inediti di Alberto Puschi.
E chi è Alberto Puschi, chiederete voi?!
Alberto Puschi (Trieste, 13/2/1853 - 9/11/1922) fu dal 1884 al 1919 direttore dell'allora "Museo Civico d'Antichità" di Trieste.
Appassionato archeologo, consigliere della Società di Minerva, redattore de L'Archeografo Triestino, presidente della Società Alpina delle Giulie, consigliere della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria...
Inizialmente si occupò di numismatica, ma presto allargò i suoi interessi all'archeologia, effettando scavi e ricerche in tutto il territorio circostante Trieste ed in Istria.
Svolse numerosi sopralluoghi su molti siti, curandone anche scavi di saggio, con l'intenzione di stendere una mappa archeologica che comprendesse anche tutta l'Istria. Poco si sa della (presumibilmente enorme) massa dei suoi appunti, che non furono mai integralmente pubblicati (B. Benussi ne pubblicò solo un breve sunto su L'Archeografo Triestino nel 1927-1928).
Queste fotocopie che mi sono giunte attarverso un amico sono quindi particolarmente interessanti, e degne di trascrizione.
Una nota: la storia che "con il pennino si scrive con miglior calligrafia" è una leggenda metropolitana. Gli appunti di Puschi (scritti appunto con il pennino, ma con pessima calligrafia) ne sono la riprova. Nella trascrizione vi sono quindi alcune incertezze, che segnalerò.
Comincio dal primo foglio, relativo al resoconto di un "gita archeologica a Nabresina" effettuata dal Puschi il 16 gennaio 1908:
A sin. della strada Nabresina-Sistiana (lungo la quale a detta della mia guida Ronzani (?), addetto alla cava Benvenuto, si trovarono a più riprese oggetti antichi e specialmente pile di pietra), precisamente un chilom. e mezzo circa dall'incrocio di questa colla strada Nabresina-Bivio, venne a luce un tratto di muro romano alto m. 1 e largo 9 (?) e grosso 0,5 a circa 8 m. di profondità dal piano della strada, in direzione circa est-ovest, presso il laboratorio della cava Leopoldo Pertot vicino alla cava Giuch (?). Il muro è fondato su massicciata di scaglie calcaree e di cemento, della quale però non si conosce l'altezza non essendosi continuato lo scavo fino in fondo. L'edificio (laboratorio o tettoia ad uso della cava romana) era circondato a levante e a mezzogiorno fin presso dai corsi della roccia. Il muro a ovest piegava ad angolo retto e continuava forse anche nella direzione di ponente.
Il muro è di buona costruzione solidissima, tanto che oggi sostiene verso nord una massa enorme di materiale.
In fondo, vicino al muro, si trovò la vera di pozzo A, che consiste di un monolite cilindrico, del diam. mass. di m. 0,95, dello spessore di 0,16 e dell'altezza di 0,54. E' alquanto corroso dall'uso, sicchè sarà precipitato coll'altro materiale anziché esser stato fabbricato laggiù per esser poi trasportato altrove.
Si raccolsero inoltre frammenti di fittili, una rozza pila di calcare e molti rottami di embrici romani (che appartenevano probab. al tetto dell'edificio), tra cui uno col bollo: MSICKM...
Nella biblioteca di Nabresina si conservano oltre a vari oggetti anche due frammenti epigrafici, di cui il maggiore trov. a Srednji, il minore in un campo verso Slivno. Ne ha cura il decoratore Enrico Höller.
Corredano gli appunti un paio di schizzi, relativi alla mappa della zona degli scavi ed i testi dei due frammenti epigrafici.

Note varie:
  • la località dello scavo, "un chilom. e mezzo circa dall'incrocio di questa colla strada Nabresina-Bivio", dovrebbe essere nella zona dell'incrocio dell'attuale provinciale con la strada che porta alla nuova zona artigianale, poco dopo il cavalcavia ferroviario.
    Non so quale sia stata l'ubicazione del "laboratorio Leopoldo Pertot"
  • la citata "Cava Giuch" potrebbe essere forse la cava di Jurcovez, che si trova però in prossimità del Castelliere 2 di Slivia (e quindi non è propriamente vicinissima alla strada provinciale)
  • una località Srednie pare trovarsi in prossimità della Strada Costiera, all'altezza della sovrastante Cava Romana.
Che fine avrà fatto questo muro? Dove si trovava esattamente? Esisterà ancora?
Ed i frammenti epigrafici citati... saranno al sicuro, magari all'Orto Lapidario, oppure saranno andati dispersi?
Quante domande...