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martedì 30 dicembre 2014

il monumento ai Lupi di Toscana


Allontanandosi da Trieste in direzione di Monfalcone, sulla strada statale 14 poco prima del bivio per la Strada del Vallone, su un roccione carsico a sinistra si alza un caratteristico monumento, con due lupi in bronzo.
Monumento tanto caratteristico, ma del quale molti ignorano l'origine; ed ancor più numerosi coloro che ne ignorano la travagliata vita.

Il monumento ricorda i soldati della "brigata Toscana", i cosiddetti "Lupi di Toscana", che nella primavera del 1917 combatterono poco lontano da qui nel corso della Decima Battaglia dell'Isonzo.

Per prima cosa, bisogna dire che il monumento attuale non è quello originale. Il primo monumento, collocato approssimativamente nella medesima posizione, era stato inaugurato il 23 ottobre 1938.
Realizzato dal prof. Ambrogio Bolgiani dell’accademia di Brera, era abbastanza differente rispetto all'attuale: molto più grande, era costituito da tre lupi, di cui uno morente che, cadendo, trascinava con sé un'aquila, simbolo dell’Austria-Ungheria.
Questo monumento originale fu distrutto nel corso della seconda guerra mondiale, ma non è chiaro né quando né da chi.
Secondo alcuni, fu distrutto dai tedeschi nel 1944, forse per recuperare il bronzo.
Secondo altri, a distruggerlo furono invece i partigiani jugoslavi nel maggio del '45.

Il primo monumento, inaugurato nel 1938 e distrutto nel 1944 o 1945

Il cinegiornale "Luce" per l'inaugurazione del primo monumento



Il monumento attuale, opera di A. Righetti, fu inaugurato il 3 novembre 1951; è composto da due lupi in bronzo, simbolicamente rivolti il primo verso il monte Hermada mentre richiama il branco, il secondo invece volge lo sguardo verso il basso, come se volesse controllare il nemico.

L'inaugurazione del nuovo monumento
(3 novembre 1951)


Ma anche il nuovo monumento non ebbe vita facile.
Nella notte tra il 26 ed il 27 ottobre 1963, in seguito ad un fallito tentativo di furto il monumento fu fatto precipitare nella strada sottostante; restaurato, fu posto nuovamente in sede il 19 gennaio 1964.
In seguito, il monumento fu dipinto di vernice bianca e rossa; ed ancora, nel 1973 fu nuovamente oggetto di furto. Uno dei due lupi di bronzo, segato via dal piedistallo, fu asportato, asseritamente da dei ladri di bronzo. Tuttavia i Carabinieri riuscirono a recuperarlo una decina di giorni dopo, sepolto nell'orto di una casetta a Barcola.
Questo episodio solleva più di una perplessità sul reale movente: se il furto fosse stato consumato effettivamente solo per recuperare il metallo, difficilmente i ladri si sarebbero dati la briga di seppellirlo; ed ancor più difficile che i Carabinieri disponessero di indizi tali da portarli a colpo sicuro ad una casetta di Barcola...
Considerato anche il precedente della vernice, è molto più verosimile un atto dimostrativo, ad opera dei tanti che, da sempre, contestano la reale "italianità" di questa terra.    

Sulle zampe sono visibili i segni della saldatura, dopo il restauro
in seguito al misterioso tentativo di furto del 1973

La saldatura, sulla zampa anteriore, ha parzialmente
cancellato la firma dell'autore: A. Righetti

La lapide sottostante al monumento.
Riporta la data del 2 gennaio 1964; sembra essere sovrapposta
alla lapide originale (vedi foto del 3 novembre 1951)

Talvolta, si sente dire che il monumento è stato eretto sul punto più avanzato raggiunto dai soldati della "Brigata Toscana": anche se ciò è stato ripetuto anche in atti ufficiali (l'ultimo: un'interrogazione parlamentare al ministero della Difesa del 4 dicembre 2014), non è vero: il punto più avanzato toccato dalle truppe italiane si trova qualche centinaio di metri più a nord, in prossimità dell'attuale Cartiera; o, un po' più a est, sui primi contrafforti del Monte Hermada.

Per approfondire:

sabato 19 dicembre 2009

la leggenda della Grotta del Diavolo Zoppo

Fino a tempi non troppo remoti esisteva in prossimità delle foci del Timavo una grotta, detta “del Diavolo Zoppo” (catasto 39/225VG ), alle falde del colle detto “Monte Sant’Antonio”.
Era piccolina (lunga 34 metri, profonda 9) e, dopo la prima guerra mondiale, una cava a servizio di un cementificio si “mangiò” tutto il Monte Sant’Antonio e, con esso, la “Grotta del Diàul Zot”.
L’aspetto più interessante di questa grotta è costituito dalle leggende che si sono formate attorno ad essa.
Lo stesso nome deriva da una suggestiva leggenda, raccolta da Giacomo Pocar:

...in tempi remotissimi sul monticello di Sant’Antonio, quand’esso era ancora un’isola, vi fu la continuazione di una grande guerra incominciata in terraferma.
Quand’era sulle mosse per partire col suo tesoro, una freccia nemica lo colpì ed il guerriero cadde moribondo al suolo.
Vedendosi prossimo a morire, testò le sue ricchezze a favore dei poveri, pensando così di placare l’ira di Dio che tremenda gli sovrastava, per punirlo delle ruberie e degli assassini commessi.
Appena morto quel tristo, ecco comparire presso il cadavere un angelo sfolgorante di luce ed un orribile demonio. Il primo sosteneva che, in base al testamento del defunto, il tesoro apparteneva ai poveri e ch’egli era incaricato della distribuzione; l’altro intendeva che quelle ricchezze fossero roba sua, perché,carpite con saccheggi ed uccisioni.
Dalle parole vennero ai fatti, e dopo un’accanita lotta, vinse il demonio.
Ma questi, nella fretta di fuggire, tutto fuori di sé per la riportata vittoria,correndo precipitò in questa grotta trascinandosi dietro il cassone, che gli si rovesciò addosso rompendogli una gamba.
Il demonio divenne quindi zoppo, e da ciò ”la grotta del Diavolo Zoppo”
Per questo accidente non potè proseguire il viaggio fino all’inferno e dovette decidersi a fermar qui la sua dimora, se voleva custodire il tesoro.

Quando ci sono voci del genere, si sa, i ricercatori di tesori si scatenano…
Ma fu una ricerca che giocò brutti scherzi ai novelli Indiana Jones.
Pare infatti che intorno al 1730 quattro villici, accompagnati da un oste della zona, si avventurarono nella grotta, con la speranza di arricchirsi...
E fosse suggestione, fosse il volo di uccelli notturni o pipistrelli che nella grotta avevano trovato rifugio, i cinque malcapitati subirono un gravissimo spavento… tant’è che quattro di loro, nei giorni successivi, morirono per causa oscura.
Stessa misteriosa sorte toccò, poco tempo dopo, a due preti che, in compagnia di una donna, tentarono la medesima impresa.
Nel suo "Ragguaglio geografico storico del territorio di Monfalcone", pubblicato a Udine nel 1741, lo storico  Basilio Asquini ci racconta:

... è fama, che in questa grotta da più secoli stia nascosto un tesoro, dall’avidità di posseder il quale spinti quattro Carsolini, che colà erano stati mandati ad appianare la prossima già mentovata strada, uniti ad Antonio Sborzo Oste de’Bagni, deliberarono di introdursi in detta Grotta, e di non uscirvi, che molto ricchi.
Munitosi perciò ciascuno di loro di una torcia a vento, di quelle, che sogliono i contadini adoperare in quelle parti, chiamate da loro Falle, animosamente un dopo l’altro calarono nella medesima.
Internatisi alquanto in essa sentirono eccitarsi un grandissimo strepitio, che non di poco terrore fu loro cagione.
Tuttavia fattisi tra se coraggio, avvanzonsi ancora alcuni passi; ma venutili incontro alcuni grandi uccelli, li quali essi presero per Diavoli alati che coll’ale smorzarono loro le torcie, e che contro i medesimi grandi strida gittarono; senza più inoltrarsi, risolsero, come fecero, di ritornarsene addietro. Lo spavento, che per ciò concepirono, talmente loro nacque, che posti tutti cinque a letto, i quattro Carsolini in termine di pochi giorni tutti morirono, e l’Oste se non dopo una lunga infermità potè ristabilirsi in salute.
Ciò saputo avendo due Preti, i cui nomi stimiamo ben fatto tacere, giovani, e molto animosi, stimolati anch’essi dalla stessa fame dell’oro, che fa parere ogni pericolo picciolo, ed ogni fatica leggiera; figurandosi forse di avere più coraggio de’ prefati Carsolini, vollero anch’essi tentare di questo tesoro l’acquisto.
Scieltasi adunque una notte molto burrascosa, ed oscura per non essere veduti da’ Veneti , da’ quali temevano dover essi venire sturbati, per esser Arciducali, si posero in cammino in questa Grotta insieme con una donna, che conducevano seco, acciochè servisse al trasporto dell’ambita ricchezza.
Giunti, che furono col beneficio di una lanterna accesa, che ognuna di loro portava, scesero in quella: ed aggiratisi per vari seni della medesima, alla fine giunsero ad un passo stretto, frammentato da un pezzo di macigno, che una colonna sembrava.
Mentre preparavansi un dietro l’altro passarlo, si fe loro incontro un grande uccello, il quale avventateli contro col rostro, ed artigli, e strettamente gracchiando gli empi’ di tali orrori, e spavento, che potendosi appena reggere in piedi sen’unscironoo da quella Spelonca.
Ritornati a casa molto languidi, e mesti, si posero anch’essi a letto, e nello spazio di pochi giorni, tutti e tre parimenti sen passarono all’altra vita.
Dopo questi non si sa, che ad altri sia venuto il prurito di andare in cerca di questo tesoro…

Nel 1890 alcuni notabili di Monfalcone intrapresero un’accurata esplorazione, e la grotta fu frugata invano in ogni dove: nessun tesoro fu trovato. In compenso, furono rinvenuti un teschio ed altri frammenti ossei, coperti da grosse incrostazioni calcaree, e quindi evidentemente antichi. Forse anche la vista di queste ossa aveva contribuito a spaventare a morte i primi esploratori….

Il Kandler, quando la esplorò, commentò laconicamente:

Io stetti lungamente fra quei stalattiti, che hanno invero forme da scaldare l’immaginazione.
Ma il Diavolo non c’era, o si finse assente, e gli lasciai la mia carta…

venerdì 30 ottobre 2009

il sommaco

In questo periodo, subito dopo il primo freddo d'autunno, per merito del Sommaco ampie zone del Carso si tingono di colori che variano dal giallo oro al rosso brillante al porpora, e che paiono talvolta vere e proprie fiammate nel paesaggio della landa carsica.
Immagini suggestive, che hanno nel tempo evocato tristi figure retoriche: "il Carso, che si tinge di rosso per il sangue dei soldati caduti"...



Il merito, si diceva, è del Sommaco o Sommacco, un caratteristico arbusto il cui nome scientifico è Cotinus coggygria Scop. o Rhus cotinus L., ma che è anche noto come Scotano o con il suggestivo nome di "albero di nebbia" (nome dovuto alle infruttescenze, vistosamente piumate, e che paiono quasi sbuffi di fumo).
Pare che il nome di Rhus, e Rhous in greco, derivi dalla parola celtica rhud (rosso).
Non è da confondersi con il "Sommaco velenoso" (Rhus Toxicodendron). Il Sommaco nostrano non è certamente edibile, ma neppure velenoso come il Rhus Toxicodendron.

 

Le foglie, ricche di tannino e trementina, venivano una volta usate nella concia delle pelli, per la tintura delle stoffe, ma anche per un decotto fortemente astringente.
E se le foglie venivano usate per tingere di rosso, il legno veniva invece usato per ottenere il giallo.
Il legno di Sommaco (splendido, duro, compatto, con venature gialle e verdi) veniva usato in tornitura, dagli ebanisti, dai liutai e per fare pipe.



Nella landa carsica, battuta dalla Bora, la sua altezza raramente raggiunge i due metri. Ma se attecchisce in zone riparate, allora si sviluppa in altezza, raggiungendo anche la dignità di albero. A San Giovanni del Timavo, in prossimità della Chiesa, si trova un esemplare centenario, alto 7 metri e con il tronco della circonferenza di un metro).



E' una pianta eccezionalmente robusta, che si accontenta di affondare le proprie radici in pochi centimetri di terra tra le fessure della roccia. E neanche il fuoco riesce ad averne facilmente ragione: la foto sopra è stata scattata ad ottobre sul Monte Sei Busi, interessato lo scorso agosto da un ampio incendio boschivo. Sono passati poco più di due mesi ed i rami carbonizzati, spettrali, accolgono già ai loro piedi le prime foglie nuove...

lunedì 29 dicembre 2008

presenze romane sul Carso

Qualche giorno fa (precisamente qui) scrivevo che la casa romana di Sistiana è l'unica sul Carso triestino.
Beh, non è vero. Io l'ho scritto basandomi sulla vecchia (ma valida) "guida del Carso Triestino" di Dante Cannarella; però nel frattempo il mondo è andato avanti, e ci sono state diverse nuove scoperte.
Ho trovato qui una bellissima guida al proposito: ed i resti sono numerosi:
  • la "villa di Aurisina", scoperta nel 1976, scavata, rilevata, e successivamente reinterrata (quindi, oggidì c'è ben poco da vedere...)
  • la "villa del Randaccio", a San Giovanni di Duino, scoperto nel 1977, e che sembra possa essere la famosa Fons Timavi riportata sulla Tabula Peutingeriana
  • "Casa Pahor", a Villaggio del Pescatore
  • la "Casa del Locavaz" (beh, ci stiamo allontanando un po'... ma siamo ancora ai confini del Carso triestino)
... ed altre ancora.
E c'è anche un bel rilievo della casa di Sistiana.
Ce n' è di materiale per gite, vero?