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lunedì 5 settembre 2016

Il ginepro ed il "Brinjevec"

Il Ginepro (Juniperus Communis L.) è una pianta caratteristica del paesaggio carsico.
Anche se è diffuso in molte altre zone, in Carso trova un ambiente ideale.
E' una pianta dioica, ovvero sessuata: le bacche si trovano sulle piante femminili, le piante maschili sono uguali ma prive di bacche.

Pseudofrutti di ginepro a vari stadi di maturazione.
Quelli più scuri sono quasi maturi, quelli verdi saranno maturi il prossimo anno.

E' una pianta che chiede poche risorse: si accontenta di un pugno di terra che sta in una spaccatura della roccia, e dell'acqua appena sufficiente a mantenerla umida. Ma è anche una pianta dai ritmi pacati: cresce molto lentamente, e le sue "bacche" impiegano due anni per giungere a maturazione.  

La cosiddetta "bacca di Ginepro" in realtà non è una bacca: il nome corretto sarebbe galbula o pseudofrutto.
La bacca di ginepro è usata come spezia in cucina, per insaporire carni e crauti; ma è tradizionalmente nota in Carso soprattutto per i suoi poteri curativi. 
Dalle "bacche" di ginepro infatti si ricava il Kraški brinjevec, un liquore incolore e trasparente, molto forte (tra i 40° ed i 50°), e dal sapore caratteristico e particolare.
Le galbule mature vengono raccolte nei mesi di ottobre/novembre; vengono prima frantumate, messe a mollo in acqua e quindi lasciate fermentare in contenitori ermetici per un mese.
Al termine, il prodotto fermentato viene sottoposto ad un primo processo di distillazione in uno speciale alambicco in rame.
La prima frazione della distillazione fornisce il rinomato olio di ginepro (brinjevo olje). Il resto del distillato viene sottoposto ad un ulteriore, lento processo di distillazione, che restituisce il Brinjevec.


Il Brinjevec non viene consumato come un normale liquore, ma per le sue virtù medicinali: è un potente digestivo, ed è reputato sommamente efficace dalla medicina popolare per la cura di gastrite e dei dolori mestruali.


Le virtù medicinali dell'olio di ginepro lo rendono invece utile per curare disturbi digestivi, malattie respiratorie, o delle vie urinarie.
In questo caso, viene assunto per bocca (poche gocce su una zolletta di zucchero).
Viene anche usato per frizioni per curare malattie reumatiche.



La resa è bassissima: sono necessari fino a 250 Kg di bacche per produrre un litro di olio e 16 litri di Brinjevec; è comprensibile quindi che siano molto costosi (in particolare l'olio di ginepro può avere un prezzo superiore ai 200 euro al litro!)

Questo, relativamente all'olio prodotto secondo il processo tradizionale; in erboristeria si trova anche dell'"olio essenziale di ginepro", molto più economico, ma prodotto con procedimenti differenti e dalla resa più elevata e, probabilmente, non altrettanto efficace.

Esistono poi molti altri liquori basati sul ginepro, diversi dal Brinjevec: per lo più, si tratti di infusi di ginepro in grappa o alcool etilico, e non di distillati di ginepro. Il costo è quindi enormemente inferiore (e può capitare di trovarli anche al supermercato), possono esser anche liquori gradevoli, ma è giusto sottolineare che non si tratta di Brinjevec, al quale neppure assomigliano.

martedì 9 dicembre 2014

Gli strani utilizzi del Bagolàro



Il Bagolàro (o "bobolèr", ma noto anche come "Lodogno", "Spaccasassi" e "Albero dei Rosari") è un grande albero (Celtis Australis) molto diffuso sul Carso, sul cui terreno attecchisce molto bene.
Ha un caratteristico legno chiaro, duro, flessibile, tenace ed elastico e di grande durata; un tempo ricercato per mobili, manici, attrezzi agricoli e lavori al tornio. Oggi, al più, viene apprezzato come ottimo combustibile.

La diffusione del "bobolèr" in zona favorì nel corso dell'800 il prosperare a Trieste di due curiose industrie: la prima è quella delle bacchette per direttori d'orchestra, per le quali il legno di Bagolàro era insuperabile per le sue caratteristiche di resistenza, leggerezza e flessibilità. Umili rami nati tra il pietrame del Carso finirono quindi in mano ai più famosi direttori di tutte le maggiori orchestre d'Europa, a disegnare nell'aria il ritmo dei concerti.

L'altra curiosa industria diffusasi a Trieste per sfruttare questa preziosa materia prima fu quella dei manici da frusta di varie forme, prodotti a Trieste ed esportati poi in Germania ed in Italia. Il più noto fabbricante fu l'Officina Luppieri, che aveva sede in Piazza della Caserma (l'odierna Piazza Oberdan).

Un'altra industria legata al Bagolàro, minore ma molto curiosa, fu quella della produzione di rosari,  per i quali si utilizzava il nocciolo del frutto - una sorta di piccola bacca subsferica, bruno-nerastre a maturità, carnose e commestibili.
Fu questa l'origine del nome "albero dei rosari".

Karl Moser nel 1886 dedicò uno studio ai Bagolàri presenti nella dolina Ajša (in prossimità di Aurisina), nella zona prospiciente la Grotta del Pettirosso. Nella stessa zona è possibile individuare ancora oggi non solo i discendenti, ma anche alcuni degli esemplari originali studiati dal Moser quasi 130 anni fa (è un albero molto longevo, che può superare anche i 300 anni di età).

lunedì 4 agosto 2014

Concorso fotografico: Flora e paesaggi naturali del Litorale Austriaco

Allium victorialis L. (Aglio serpentino, Aglio vittoriale)
foto A. Sgambati


Il Club Touristi Triestini organizza un concorso fotografico, con tema "Flora e paesaggi naturali del Litorale Austriaco e dei territori contermini.".

Il "Litorale Austriaco" comprende storicamente il territorio da Bovec/Plezzo a Lussin, da Cervignano a Baška, comprendendo quindi tutto il territorio carsico; ai fini del concorso, è esteso anche alle regioni e territori di Trentino, Tirolo, Veneto, Friuli, Carinzia, Stiria, Slovenia e Croazia.

Il concorso ha il fine dichiarato di raccogliere foto digitali della flora autoctona spontanea e rinselvatichita, da utilizzarsi anche a fini di documentazione e pubblicazione scientifica.

E' gradito che gli autori identifichino e classifichino autonomamente i soggetti ripresi; tuttavia, nel caso di immagini delle quali non si sia in grado di identificare la specie della pianta soggetto, ciò verrà effettuato dalla giuria, che si avvale della preziosa collaborazione del prof. Poldini

La scadenza per l'invio delle immagini è il 14 novembre 2014.

Il bando del concorso (la cui partecipazione è gratuita) è disponibile sul sito del Club Touristi Triestini.


venerdì 15 gennaio 2010

il Carso: un'arida (ma non sterile) pietraia

Sul Il Piccolo del 14/1/10 è stata pubblicata una lettera dell'ex presidente dell'Area di Ricerca, Domenico Romeo con la quale, in sostanza, viene perorato l'allargamento dell'insediamento dell'Area di Ricerca "da Padriciano a Banne, estensione che servirebbe anche a “risanare” il territorio di Banne, che ha perso le caratteristiche ambientali tipiche del Carso, essendo diventato da anni un’arida pietraia."

Spiacente di contraddire il prof. Romeo, ma le caratteristiche ambientali tipiche del Carso sono proprio quelle dell'"arida pietraia"; ed i boschi di conifere (non sempre in buona salute), che costituiscono il panorama attuale sono il risultato di un esperimento (solo parzialmente riuscito) di rimboschimento, realizzato a cavallo tra XIX e XX secolo.
Quella che il prof. Romeo definisce "arida pietraia" si chiama in realtà "landa carsica" e, intervallata da boschi di latifoglie, ha costituito per oltre un millennio l'ambiente naturale del nostro altopiano.
Arida certamente sì - né potrebbe esser altrimenti, data la natura del terreno carsico. Ma tutt'altro che sterile; costituisce anzi un biotopo particolare, indispensabile per moltissime specie animali e vegetali caratteristiche della nostra zona, e preziosissimo quindi per tutelare la biodiversità e l'equilibrio ambientale.
Zone di landa carsica di dimensioni adeguate vanno quindi reintrodotte e tutelate, e non sprezzantemente liquidate come "aride pietraie".

venerdì 30 ottobre 2009

il sommaco

In questo periodo, subito dopo il primo freddo d'autunno, per merito del Sommaco ampie zone del Carso si tingono di colori che variano dal giallo oro al rosso brillante al porpora, e che paiono talvolta vere e proprie fiammate nel paesaggio della landa carsica.
Immagini suggestive, che hanno nel tempo evocato tristi figure retoriche: "il Carso, che si tinge di rosso per il sangue dei soldati caduti"...



Il merito, si diceva, è del Sommaco o Sommacco, un caratteristico arbusto il cui nome scientifico è Cotinus coggygria Scop. o Rhus cotinus L., ma che è anche noto come Scotano o con il suggestivo nome di "albero di nebbia" (nome dovuto alle infruttescenze, vistosamente piumate, e che paiono quasi sbuffi di fumo).
Pare che il nome di Rhus, e Rhous in greco, derivi dalla parola celtica rhud (rosso).
Non è da confondersi con il "Sommaco velenoso" (Rhus Toxicodendron). Il Sommaco nostrano non è certamente edibile, ma neppure velenoso come il Rhus Toxicodendron.

 

Le foglie, ricche di tannino e trementina, venivano una volta usate nella concia delle pelli, per la tintura delle stoffe, ma anche per un decotto fortemente astringente.
E se le foglie venivano usate per tingere di rosso, il legno veniva invece usato per ottenere il giallo.
Il legno di Sommaco (splendido, duro, compatto, con venature gialle e verdi) veniva usato in tornitura, dagli ebanisti, dai liutai e per fare pipe.



Nella landa carsica, battuta dalla Bora, la sua altezza raramente raggiunge i due metri. Ma se attecchisce in zone riparate, allora si sviluppa in altezza, raggiungendo anche la dignità di albero. A San Giovanni del Timavo, in prossimità della Chiesa, si trova un esemplare centenario, alto 7 metri e con il tronco della circonferenza di un metro).



E' una pianta eccezionalmente robusta, che si accontenta di affondare le proprie radici in pochi centimetri di terra tra le fessure della roccia. E neanche il fuoco riesce ad averne facilmente ragione: la foto sopra è stata scattata ad ottobre sul Monte Sei Busi, interessato lo scorso agosto da un ampio incendio boschivo. Sono passati poco più di due mesi ed i rami carbonizzati, spettrali, accolgono già ai loro piedi le prime foglie nuove...

sabato 7 marzo 2009

L'avanguardia della primavera

Passo nel mio solito angolino segretissimo di Carso, ed eccole qua:


Le primule, l'avanguardia della primavera.

No, non chiedetemi dov'è il mio segretissimo angolino. In Carso ci sono migliaia di angoli segreti. Cercatevi il vostro, tutto per voi, e lasciate a me il mio...
Lo divido solo con lui:



(scusate per la qualità della foto: con una compatta, anche se Nikon, si fa quel che si può...)

domenica 18 gennaio 2009

il rimboschimento del Carso

Non tutti sanno che l'aspetto attuale del Carso, con i suoi boschi di pini, è cosa tutto sommato recente.
Due secoli fa il paesaggio più comune era la cosiddetta "landa carsica", ovvero poco più di un deserto roccioso, utilizzabile al più come stentato pascolo.
Come accennavo qui, il rimboschimento fu il risultato di un'opera titanica, realizzata a cavallo tra il XIX ed il XX secolo e, come vedremo, non priva di difficoltà.
Dettagli interessanti li ho scoperti in uno scritto di Ario Tribel - L’imboschimento del Carso (in “Guida dei dintorni di Trieste”, Società Alpina delle Giulie, Trieste 1909), che vi riporto di seguito:

Chiunque spinga i suoi passi sul brullo altipiano che sovrasta e circonda Trieste, rimarrà colpito da segni non dubbi di un’opera gigantesca, che lentamente ma costantemente progredisce e riuscirà certo a tramutare la melanconia di quei deserti di pietre nella ridente ubertà d’un suolo avvivato dal verde dei prati e dei boschi, vanto non piccolo questo della feconda operosità del patrio Consiglio, iniziatore e collaboratore di tale opera.
[…] L’impulso dell’opera feconda del rimboschimento del nostro altipiano partì dalla mente illuminata di Domenico Rossetti.
La Municipalità di Trieste, seguendo le sollecitazioni dell’illustre concittadino, ed i consigli del governatore d’allora, conte Francesco Stadion, iniziò nel 1842 le prime colture forestali nel Carso, che però, al pari degli esperimenti ripresi nel 1857, non sortirono l’effetto sperato, essendosi trascurate le più elementari cautele.
Il Comune di Trieste, per meglio riuscire nell’intento, nominò poi uno speciale commissione, la quale, assicuratasi l’opera ed il consiglio dell’ispettore forestale di Gorizia, Giuseppe Koller, fece rimboscare, nel 1859, due appezzamenti di terreno con piantagioni, a formelle e fosse, di pino nero e silvestre, frammistia essenze legnose indigene.
Questi esperimenti, continuati ed estesi poi con successo dalla commissione municipale, dimostrarono essere il pino nero la pianta più adatta alle condizioni del suolo e del clima del nostro altipiano, e meglio resistente.
In seguito il Consiglio municipale affidò la cura del rimboschimento ad uno speciale “comitato amministrativo d’imboschimento del Carso”, composto di tre membri del Consiglio municipale e di tre membri della Società Agraria, con a capo il presidente della Società stessa. Il comitato si costituì il 20 aprile 1870, con un annuo sussidio di fiorini 3000, assegnatigli dal Comune.
L’opera benefica di questo comitato vive negli appezzamenti da esso artificialmente rimboschiti, che allietano ora non piccole parti del territorio di Trieste, col verde intenso dei pini. Sono diciotto i boschi comunali da esso creati col nome d’uomini benemeriti che dedicarono cure e studi amorosi all’opera di rimboschimento.
Fino al 1882, nel quale anno il comitato amministrativo si sciolse, furono rimboschiti 109 ettari e 8288 m.q. di terreno, con 917.352 piantine. In tal modo sorsero i seguenti boschi comunali, la maggior parte di pino nero: Biasoletto (Chiadino), Napoli (S. Maria Maddalena Inferiore), Mauroner e Rossetti (Banne), Conti (Contovello), Volpi, Tommasini, Bertolini e Burgstaller-Bidischini (Opicina), Koller, Stadion, Nobile, Porenta e Pascotini (Basovizza), Captano e Kandler (Trebiciano), Scopoli (Padriciano), Vordoni e Mattioli (Gropada). Presso ogni bosco vi è una colonnetta recante lo stemma cittadino, le lettere B.C., che significano “Bosco Comunale”, il nome del bosco stesso, un numero romano indicante la serie, nonché l’anno in cui si diede principio alla piantagione.
Al “comitato amministrativo” subentrò la “commissione d’imboschimento del Carso”, che in base alla legge del 27 decembre 1881, deve restare in attività vent’anni. Questa commissione disimpegnò finora brillantemente il suo compito. Dalle relazioni pubblicate dal solerte ispettore forestale provinciale Giuseppe Pucich, apprendiamo che dell’area totale di ettari 1169 (quale appare dal catasto boschivo) destinata all’imboschimento, nel territorio di Trieste, dal 1882 al 1906, furono coperti di piantagioni 823.16 ettari, con una spesa di 152,695.50 corone.
Complessivamente furono impiegati 4261 chg. di semi e 10.905.180 piante, compresi i risarcimenti di vecchie colture e l’allevamento del sottobosco. (in media si collocano annualmente nel nostro territorio oltre mezzo milione di piantine e talee, con una spesa di 7-8000 corone all’anno.)
Delle varie essenze legnose furono prescelte fa le aghifoglie: il pino nero, il pino paroliniano, il pino d’Aleppo, il pino strobo, il pino laricio, (della Corsica), l’abete eccelso, l’abete bianco, il larice europeo, ecc.; e fra le latifoglie: l’acero, l’olmo, il frassino, il carpino, l’alno, la robinia, la quercia ed il faggio, che sono tra le specie legnose indigene del Carso.
Circa il metodo di coltura adottato per il rimboschimento del Carso si deve osservare come, in seguito alla prevenzione che le piante latifoglie indigene dovessero allignarvi meglio di tutte le altre, nelle prime colture sono state preferite appunto le piante a foglia larga, con la seminagione di circa 15.000 chg. di ghianda. Ma dopo alcuni anni queste piante perirono quasi tutte. Si ricorse allora alle conifere, e fra queste specialmente al “pino nero”, che diede ottimi risultati, mentre le altre aghifoglie, come larici, abeti, ecc. non corrisposero che mediocremente.
Il pino nero infatti sopporta a meraviglia i lunghi periodi di siccità della regione carsica e resiste vigorosamente alla violenza della bora; inoltre dà al suolo ricca messe di spoglie atte a produrre in pochi anni uno strato di terra vegetale ed preparare così il terreno a future piantagioni d’essenze legnose miste. Questo sarebbe l’ideale dell’imboschimento del nostro altipiano, tanto che per cura della commissione triestina, nei boschi di 35-40 anni, da rinnovarsi fra breve, furono iniziati precisamente allevamenti di sottobosco misto, destinati a sostituire col tempo le pinete ora esistenti.
Lasciato da parte il sistema delle seminagioni, che diede sinora risultati poco incoraggianti, si segue adesso, meno in singoli casi, quello delle piantagioni in buche (formelle) scegliendo di preferenza le piantine di due anni coltivate in appositi vivai. Le nuove piantagioni si eseguiscono in primavera, essendo le colture primaverili meno esposte ai danni della bora. (per difenderle dalla violenza della bora, le piantine vengono attorniate da sassi, che giovano pure a mantenere più a lungo l’umidità del terreno.)
I piantoncini si tolgono da appositi vivai tenuti a spese delle commissioni, e dagli orti forestali dello stato. La commissione triestina istituì già nel 1882 l’orto stabile di Basovizza, dell’area di 2700 m.q., il quale, dopo le migliorie recentemente introdottevi, è in grado non solo di fornire i piantoncini richiesti per gl’imboschimenti di quella commissione ma anche di cederne annualmente allo stato ed ai privati.
La deficienza di terra sull’altipiano ne rende in molti casi necessario il trasporto a mezzo di carri da siti anche lontani; altre volte invece si ricorre con minor spesa, allo strato di “humus” che provvidenzialmente riveste il fondo delle conche (doline), veri serbatoi di terra vegetale.
Oltre che dalle lunghe siccità estive e dalla violenza della bora, che sono i nemici acerrimi delle nostre colture forestali, altri danni non lievi vengono recati alle piantagioni boschive del Carso da voraci insetti che distruggono il novellame; e non di rado si aggiunge poi il vandalismo umano che, per ignoranza, per malizia, o per ire di partito, colpisce le opere di civiltà con l’arma terribile del fuoco. Solo nel territorio di Trieste, dal 1882 al 1906 si ebbero 71 incendio di boschi, di cui non pochi dovuti alle solite… “cause ignote”.
Ma se un giorno, come ormai appare certo, l’imboschimento del Carso riuscirà a dare al nostro altipiano l’antico decoro di selve e di prati, lo stesso carsolino benedirà indubbiamente l’opera feconda, da lui inconsultamente osteggiata, apportatrice di benefici immensi, oggetto d’ammirazione per il forestiere e di vanto per il nostro Comune (L’opera delle commissioni riunite d’imboschimento del Carso venne premiata col “Grand Prix” all’esposizione mondiale di Parigi del 1900.)

Quello del piromane sloveno non era un mito personale del Tribel. Ne parla anche Scipio Slataper (peraltro, con una certa perversa ammirazione) ne “Il mio Carso”:

Lo sloveno mi guarda seccato. - Brucia i boschi che gli italiani, gente sfatta di venti secoli, portarono qui per potere andare a sentire la conferenza di Donna Paola e entrar nella Borsa senza bora! - Lo sloveno mi dà un'occhiata sghignante, taglia un ramo, estrae di tasca vecchi fiammiferi che ardon con lenta fiamma violetta, e accende paziente il foco. Io l'aizzo, ma egli fa un passatempo di pastore; io l'aizzo come se fossi slavo di sangue. O Italia no, no! Quando il boschetto cominciò ad ardere, io m'impaurii e volli correre per soccorso. Ma egli mi. disse: - Xe lontan i pompieri - ;sorrise lentamente, raccolse la frusta, e andò spingendo le quattro vacche. Io mi sdraiai, sfinito. "Così calava Alboino!"

Oggidì l'aspetto e l'ambiente del Carso è senz'altro diverso e, indubbiamente, migliore - anche perchè la diffusione del bosco ha arricchito enormemente il patrimonio faunistico. Limitate zone di landa carsica sopravvivono ancora, e mantenerle tali è però un bene: non solo come testimonianza ambientale, ma anche per la necessaria differenziazione. Infatti anche se l'ambiente del bosco è più ricco, è anche essenzialmente diverso da quello della landa carsica; quindi, perdere del tutto la landa carsica significherebbe anche perdere parte del patrimonio ambientale.